Gaetano Bresci .

La memoria di Bresci rimane circondata da un'aureola di simpatia e di gratitudine nella coscienza di molti italiani
[...] la grande maggioranza del Paese trovò che Umberto quella palla di revolver non l'aveva rubata
" (Gaetano Salvemini)

Domenica 29 luglio 1900 alle 10:30 di sera l'anarchico pratese Gaetano Bresci uccise il re d'Italia Umberto I sparandogli quattro colpi di revolver mentre si spostava in una carrozza scoperta presso la Villa Reale di Monza, dove trascorreva la villeggiatura estiva. Al momento della morte Umberto aveva cinquantasei anni ed era re da ventidue anni, dal 9 gennaio 1878. Meno di un anno dopo Gaetano Bresci fu "suicidato" nel penitenziario dell'isola di Santo Stefano.

Primi anni
Gaetano Bresci era nato a Coiano, località del comune di Prato, il 10 novembre 1869, un giorno prima del figlio di Umberto I, che diventò re alla morte del padre con il nome di Vittorio Emanuele III. Secondo Rivista Anarchica
(1971) in realtà Bresci era nato lo stesso giorno di Vittorio Emanuele, ma dopo il regicidio la sua data di nascita era stata cambiata, per evitare la coincidenza. Petacco sostiene la stessa tesi e scrive che la data originaria è ancora desumibile dai registri comunali di Prato. In realtà, la recente pubblicazione sul sito degli Archivi di Stato (link) degli atti di nascita redatti presso il comune di Prato, tra i quali quello di Bresci, (1° parte e 2° parte), consente di verificare che la registrazione del neonato Gaetano Bresci è stata eseguita il 13 novembre dalla levatrice, che ne dichiarò la nascita il 10 novembre 1869 alle 10 di mattina.
Anche sul registro dei battesimi la data di nascita è il 10 novembre, ed è corredata da due aggiunte del canonico A. Valaperti, scritte dopo il regicidio: una in latino: "melius erat ei si natus non fuisset homo ille" ("sarebbe stato meglio se quell'uomo non fosse nato") e poi "ad perpetuam rei memoriam" ("a perpetua memoria del colpevole") e una in italiano "questo infame la sera del dì 29 luglio 1900 a Monza assassinò con 3 colpi di rivoltella l'ottimo Re nostro Umberto d'Italia. Sia pace all'anima benedetta di lui ed obbrobbrio sempiterno all'infame assassino".
La casa natale di Gaetano si trova a Coiano in località "I Ciliani" in via delle Girandole, 58, oggi denominata via del Cilianuzzo (secondo Santin e Riccomini è l'attuale via Baracca). Gaetano era l'ultimo di quattro figli di Maddalena Godi, casalinga di quarantaquattro anni, e Gaspero (o Gaspare), agricoltore di quarant'anni, originario di Capezzana, proprietario di un piccolo podere. Il primogenito Lorenzo era nato il 13 ottobre 1856, sposato con Stella Magri, faceva il calzolaio, il secondogenito Angiolo, nato nel 1861, era tenente nel 10° reggimento di artiglieria di stanza a Caserta, Teresa era nata il 18 giugno 1867, era casalinga, e nel 1890 aveva sposato il falegname Augusto Marocci, originario di Castel San Pietro (BO).

Maturazione politica
Il piccolo Gaetano iniziò a lavorare come calzolaio, con il fratello Lorenzo, poi, nel 1880 suo padre cedette la maggior parte dei suoi terreni coltivabili ad Hans Kössler per avere un posto di apprendista per lui al "Fabbricone" di Coiano di Prato, aperto nel 1888 dalla ditta tedesca Kössler, Klinger, Meyer & C.
(Borsini). L'undicenne Gaetano lavorava quattordici, quindici ore al giorno, come lui stesso dirà al processo (Zucca). Gaetano frequentava alla domenica la scuola comunale d'arti e mestieri per le arti tessili e tintorie a Prato, diventando decoratore di seta, e a soli quindici anni era operaio specializzato. Lavorò come tessitore, alla Vannini di Firenze, a Compiobbi e alla ditta Cesare Zeloni di Gello. Il 26 febbraio 1891 gli morì la madre Maddalena. Gaetano cominciò a frequentare i circoli anarchici di Prato, e nel dicembre 1892, all'età di 23 anni, aderì al primo sciopero, poi represso con l'occupazione militare dello stabilimento, in seguito alla quale Bresci si licenziò. Fu poi schedato come "anarchico pericoloso", e condannato il 27 dicembre 1892 dal pretore di Prato per "oltraggio e rifiuto di obbedienza alla forza pubblica" a 20 lire di multa e 15 giorni di detenzione, poi condonati, per aver difeso con veemenza, alle 10 di sera del 2 ottobre 1892, un garzone di macellaio che i vigili urbani volevano multare (Galzerano, pag. 115). Secondo altre fonti si trattava invece di un fornaio che teneva aperta la bottega oltre l'orario di chiusura (Marzi). Dal verbale redatto dai vigili risulta che Bresci: disse loro: «Sarebbe meglio che ve ne andaste per la vostra strada lasciando in pace questo povero operaio. Non siete stati anche voi operai? Ma già, ora non lo siete più! Ora siete i servi degli sfruttatori. Siete una massa di spie e di vagabondi!». Bresci avrebbe rifiutato di declinare le proprie generalità, ma il giorno seguente sarebbe stato denunciato insieme ai compagni Augusto Nardini, Altavante Beccani e Antonio Fiorelli (Zucca).
Venne ancora fermato, "per misure di pubblica sicurezza", nel 1893 e 1895, e fu assegnato per oltre un anno al confino a Lampedusa insieme ad altri 52 anarchici di Prato, in applicazione delle leggi repressive di Francesco Crispi. Fu liberato, insieme ai suoi compagni, nel maggio 1896, grazie ad un'amnistia concessa per la disfatta del 1° marzo 1896 nella battaglia di Adua, nella guerra d'Abissinia.
Il 22 dicembre 1895 Gaetano perse il padre Gaspero, che aveva sessantacinque anni (link con l'atto del comune di Prato). Negli anni seguenti trovò difficoltà a farsi assumere per i suoi precedenti penali, e cambiò di frequente impiego, sebbene uno dei suoi datori di lavoro testimoniò al processo: "onestamente devo riconoscere che come operaio ce n'erano pochi come lui". Dopo aver cercato inutilmente lavoro a Prato, si trasferì a Ponte all'Ania, frazione di Barga nell'alta Lucchesia, dove venne assunto nel 1896 dallo stabilimento tessile "Michele Tisi e C.".
A Ponte all'Ania pare che si recasse spesso sulle sponde del torrente Ania per sparare ai ciottoli, mostrando un'ottima mira. Nell'estate del 1897 ebbe un figlio da un'operaia della fabbrica (Maria o forse Assunta Righi), e all'inizio dell'autunno tornò a Coiano per farsi prestare trenta lire dal fratello, per contribuire alle spese per il bambino (il "baliatico"). Quindi tornò a Ponte all'Ania per poche settimane; a fine ottobre si licenziò dalla ditta Tisi, tornò di nuovo a Coiano, dove annunciò che sarebbe andato in America.
Pur essendo un autodidatta, Bresci mostrò sempre un ottimo livello culturale e una molteplicità di interessi, che andavano al di là della politica. Il medico carcerario di Santo Stefano, Francesco Russolillo, racconta che i suoi occhi "ascondevano fiamme e abissi" e che Bresci "aveva una cultura e un'anima che, se non fossero stati rivolti al male da un'opera di distruzione morale, lo avrebbero reso il migliore dei lavoratori intelligenti"
(Galzerano, pag. 803).

Negli Stati Uniti
Bresci partì da Genova con il piroscafo "Colombo" il 18 gennaio 1897, sbarcando il 29 gennaio a New York dove fu ospitato dal compagno Gino Magnolfi. Appena arrivato trovò lavoro in Pennsylvania, e l'anno seguente presso il setificio della ditta Givernaud & Co. e alla Schwarzenbeck di West Hoboken (oggi Union City), nel New Jersey, dove rimase per tre anni circa, per poi passare al setificio Hamil and Booth Co. di Paterson, sempre nel New Jersey, a circa 20 km da West Hoboken, e a 21 miglia (34 km) da New York, e poi alla Emelburg. A Paterson rimaneva l'intera settimana, abitava al Bartholdi's Hotel e cenava alla pensione Both al 345 di Straight Street, detta anche via degli italiani, per rientrare il sabato a West Hoboken, dove aveva conservato la sua casa, in 263, Clinton Avenue. Nell'agosto 1898 venne ad abitare con lui la sua compagna, Sophie Knieland, nata nel 1865 a New York, di origine irlandese, conosciuta in aprile nel parco di Weehawken. Secondo una deposizione rilasciata da Sophie dopo il regicidio, lei e Gaetano si erano sposati davanti a un giudice di pace. Gaetano e Sophie ebbero due figlie, la maggiore, nata l'8 gennaio 1899, fu chiamata Maddalena (Madeline), come la nonna paterna, e la minore Muriel, detta anche Gaetanina, nacque dopo l'attentato, il 28 settembre 1900.
Paterson era una città di immigrati, con forte presenza italiana, ed era un importante centro anarchico negli USA, dove Bresci trovò molti compagni di lotta conosciuti in Italia. Per il «New York Times» del 18 dicembre 1898, su diecimila italiani residenti a Paterson, duemilacinquecento si dichiaravano anarchici e tremilacinquecento acquistavano regolarmente il giornale anarchico in lingua italiana "La Questione Sociale"
(Mazzone). Una settimana dopo il suo arrivo Bresci si iscrisse alla Società per il diritto all'esistenza; un mese dopo acquistò dieci azioni da un dollaro l'una della società editrice "Era nuova". Bresci collaborò a “La Questione Sociale", per qualche tempo diretta da Errico Malatesta, giunto a Paterson nell'agosto 1899, proveniente da Londra, via Tunisia e Malta, dove si era recato dopo l'evasione dal confino di Lampedusa, nella notte tra il 29 e il 30 aprile 1899.
Bresci partecipava assiduamente alle riunioni, anche se non interveniva spesso, e quando lo faceva parlava in modo pacato e senza alzare la voce, e iniziava spesso con la premessa "una piccola osservazione", diventata una sorte di soprannome con il quale era chiamato.
A Paterson Malatesta, sostenitore della corrente collettivista, ebbe contrasti con l'anarchico individualista romano Giuseppe Ciancabilla, direttore dell'altro giornale anarchico della cittadina, "L'Aurora", e fino al 1897 socialista, collaboratore dell'"Avanti!". Il 30 agosto 1899 nel Tivola and Zucca's Saloon, in Central Avenue a West Hoboken scoppiò un'accesa lite tra i due, durante la quale Bresci avrebbe salvato la vita a Malatesta, strappando di mano la rivoltella al barbiere anarchico Domenico Passigli (secondo alcuni "Pazzaglia"), che lo aveva attaccato, ferendolo a una gamba (vedi la notizia su "Avanti!" del 18 settembre). Lo stesso Bresci, al processo per il regicidio, testimoniò di non essere stato presente in occasione della lite
(Galzerano, pag. 106), in un altro interrogatorio confermò invece di aver disarmato il barbiere, mentre Ciancabilla sarebbe stato assente (Galzerano, pag. 118). La «Gazzetta di Torino» del 2 agosto 1900 presentò addirittura il fatto come "un duello all'americana a colpi di rivoltella". Nella controversia ideologica tra i due Bresci era più vicino alle posizioni individualiste di Ciancabilla, il cui giornale "L'Aurora" plaudirà al regicidio di Monza, mentre Malatesta, in un articolo intitolato "Cause ed effetti" prese le distanze dall'atto di Bresci, pur individuandone le cause nell'ingiustizia sociale.

Preparazione dell'attentato
Nel febbraio del 1900 Bresci annunciò a Sophie il suo viaggio in Italia, il 7 maggio si licenziò dalla fabbrica e il 10 chiese a due compagni di acquistargli un biglietto. Si imbarcò il 17 maggio 1900 sul piroscafo francese "La Gascogne" della Compagnie Générale Transatlantique, viaggiando in terza classe e approfittando dello sconto del 50% per chi partecipava all'Esposizione mondiale di Parigi. Alla fine di maggio sbarcò a Le Havre e poi si recò a Parigi, dove visitò l'Esposizione, poi fece tappa a Genova, e il 4 giugno giunse a Prato, dove il delegato di pubblica sicurezza gli negò il porto d'armi. Dal 20 giugno all'8 luglio fu a Castel San Pietro (Bologna), dove abitavano la sorella Teresa e il cognato, che era stato anche suo compagno di lavoro al Fabbricone. A Castel San Pietro soggiornava all'Osteria della Palazzina, gestita, insieme con il marito, dalla sorella di Stella Magri, moglie di suo fratello Lorenzo. L'8 luglio si recò a Bologna, per partecipare alla commemorazione popolare di Garibaldi, davanti al suo monumento, inaugurato meno di un mese prima, poi tornò a Castel San Pietro, il 19 ed il 20 luglio fu a Bologna, quindi a Parma, Piacenza e il 27 luglio arrivò a Monza, dove Umberto soggiornava dal sabato della settimana precedente, 21 luglio. Bresci arrivò in mattinata alla stazione di Monza e trovò alloggio poco lontano, in una pensione in via Cairoli 14.
Alcuni sostengono che Bresci maturò l'idea di attentare alla vita di Umberto I una volta sbarcato in Italia, ma la tesi prevalente è che fosse partito dagli USA espressamente per mettere in atto "il truce disegno del regicidio esecrando", come fu scritto nella sentenza di rinvio a giudizio. A Prato l'anarchico si esercitava presso il Tiro a Segno Nazionale di Galceti. Ci sono testimonianze di come Bresci fosse orgoglioso della propria mira, e di come ne desse di frequente dimostrazioni pratiche, usando come bersaglio delle bottiglie, che riusciva a rompere facendo passare il proiettile dal collo.

L'attentato
La sera del 29 luglio Bresci si recò al campo sportivo della società ginnica "Forti e liberi", in via Matteo da Campione, molto vicino alla Villa Reale, dove il re doveva premiare gli atleti al termine di un saggio ginnico. L'anarchico alle 21:30 vide arrivare il re su una carrozza Daumont tirata da due pariglie di cavalli. ma non tentò l'attacco e si limitò a individuare Umberto, per non confonderlo in seguito con gli altri occupanti della carrozza. Bresci era vestito in modo elegante, con il colletto dritto, cravatta nera, orologio con catena e anello al dito. Aveva con sé il revolver a cinque colpi Hamilton & Richardson "Massachussets" del 1896, che aveva comprato per 7 dollari a Paterson il 27 febbraio, su ogni proiettile aveva praticato con delle forbici diverse incisioni, come gli avevano detto facesse il bandito americano Jesse James per aumentarne la pericolosità, facilitando la penetrazione nel caso in cui il re avesse indossato una corazza, e provocando più facilmente l'infezione delle ferite.
Alle 22:30, terminata la cerimonia della consegna dei premi, il re risalì in carrozza e si apprestò a lasciare il campo ginnico, diretto alla Villa Reale, distante poche centinaia di metri. Con Umberto c'erano il tenente generale Emilio Ponzio Vaglia, ministro della Real casa, e il tenente generale Felice Avogadro di Quinto, primo aiutante di campo. Nella piantina pubblicata dall'"Avanti!" il luogo dell'attentato, con la posizione della carrozza segnata da una croce. Il re era in piedi, dentro la carrozza scoperta e stava sedendosi, quando Bresci da pochi passi sparò i quattro colpi.

Umberto fu raggiunto dal primo colpo nella parte posteriore del collo, poi si voltò istintivamente, e fu colpito al petto da altri due colpi, alla regione cardiaca, mentre la quarta pallottola fu trovata, senza tracce di sangue, sul fondo della carrozza, e quindi non andò a segno, forse perché deviata da un pugno che il maresciallo dei Carabinieri Giuseppe Braggi diede al braccio di Bresci. Umberto si accasciò nella carrozza e ordinò al cocchiere: "Avanti, Avanti!" e, richiesto di come si sentisse, rispose "non credo sia niente". Fu portato nella Villa e adagiato sul proprio letto, dove dopo quindici minuti dall'attentato morì.
I tre colpi andati a segno su quattro testimoniano la buona mira di Bresci, mentre il quinto presente nel revolver non fu sparato, e fu trovato nel tamburo, insieme ai quattro bossoli dei proiettili esplosi.
L'artista Flavio Costantini
(1926-2013) ha rappresentato il regicidio in diverse opere (1 , 2 e 3). Il settimanale "La Domenica del Corriere" pubblicò una foto di Umberto che indicò come la possibile ultima foto scattata al re.

Perché l'attentato
Il movente dell'attentato era la vendetta per le varie stragi di lavoratori, ordinate per reprimere moti di protesta, come quelli di Conselice (RA) nel 1890, in Sicilia e in Lunigiana nel 1894 e a Milano nel maggio 1898, quando l'esercito aveva sparato sulla folla che manifestava, assassinando centinaia di persone (il numero esatto non è stato mai accertato). Le proteste di Milano erano sorte per la famigerata "tassa sul macinato" che aveva provocato il forte aumento del prezzo del pane e della farina. Ne era seguito l'assalto ai forni e la durissima repressione, condotta anche con l'uso dei cannoni. Oltre ai massacri di lavoratori, anche la strage di 9.000 soldati italiani nella disastrosa guerra d'Abissinia del 1896 aveva creato le basi per il regicidio.
L'anarchico Amilcare Cipriani scrisse nell'opuscolo "Bresci e Savoia" del settembre 1900: "dalla folla immensa di vittime della miseria e dei massacri della Lunigiana, di Sicilia e di Lombardia è sorto un vendicatore, Bresci"
(Galzerano, 2001, pag.41). L'incoraggiamento alle truppe dei repressori da parte della borghesia, con lo slogan "Tirez fort, visez juste" ("sparate forte, mirate giusto") era stato evidentemente raccolto da Gaetano Bresci, che dichiarò al processo: "dopo lo stato di assedio di Sicilia e Milano, illegalmente stabiliti con decreto reale, io decisi di uccidere il re per vendicare le pallide vittime".
Lo stesso Umberto I, a cui molti attribuiscono la responsabilità politica della strage, aveva decorato con la Croce di Grande Ufficiale dell'ordine militare di Savoia e il 16 giugmo 1898 con la nomina a senatore del Regno il generale piemontese Fiorenzo Bava Beccaris, che aveva guidato la strage, in qualità di Regio Commissario Straordinario con pieni poteri, complimentandosi con lui per aver difeso la civiltà. Il giornalista Paolo Valera, testimone della strage, nel 1899 scrisse: "Nella fraseologia del generale c'è sempre del padrone che parla al servo e dell'imbecille che dalla scuola militare non ha portato via che la brutalità del mestiere". Durante il processo Bresci richiamò come causa del regicidio le stragi compiute e il fatto di aver visto "premiare gli autori delle stragi di maggio anziché impiccarli". L'anarchico Armando Borghi ricorda come dopo il 1898 negli ambienti rivoluzionari, l'uccisione di Umberto I fosse considerata "un primo passo utile verso una rivoluzione repubblicana".
L’insofferenza di Umberto e soprattutto di sua moglie, la regina Margherita per le proteste del popolo, condivisa da molti dei vertici militari e dagli industriali, portò ad elaborare un progetto di colpo di Stato istituzionale, che prevedeva lo scioglimento del Parlamento, visto come inerte e infiltrato dai socialisti, trasferendo il potere al re e ai politici più reazionari.
La svolta autoritaria di fine secolo fu completata da una legge per ridurre il corpo elettorale di 847mila elettori, portando la percentuale dei votanti sulla popolazione totale dell'Italia dal 9,8% al 6,9%
(Feldbauer).
Quello di Bresci non fu il primo attentato alla vita di Umberto I: in precedenza avevano cercato invano di accoltellare il re Giovanni Passannante, di Salvia di Lucania (Potenza), il 17 novembre 1878 a Napoli e Pietro Acciarito di Artena (Roma), il 22 aprile 1897 a Roma, sulla via Appia, mentre andava all'Ippodromo delle Capannelle. Per Acciarito la causa scatenante dell'attacco fu l'indignazione per il fatto che il re aveva offerto un premio di 24 mila lire al cavallo vincente, mentre molti italiani, Acciarito compreso, erano in gravissime ristrettezze economiche
(Centini).
Giuseppe Ciancabilla su "l'Aurora" di Paterson aveva scritto "Gli errori commessi da Passannante e da Acciarito ci hanno insegnato che oggi una pistola a ripetizione è più sicura del pugnale!", mentre lo stesso Umberto I, dopo i due attentati con il coltello, aveva previsto che per lui sarebbe finita quando gli attentatori avrebbero lasciato da parte il pugnale e si sarebbero decisi a dar mano alla pistola
(Felisatti).
Il quotidiano Il Messaggero del 18 maggio 1890 riporta un fatto che dimostra la consapevolezza da parte di Umberto della pericolosità di un buon tiratore d'arma da fuoco: assistendo a una gara di tiro a segno aveva constatato che un famoso maestro di scherma aveva ottenuto un ottimo punteggio nel tiro a segno, e gli aveva stretto la mano, congratulandosi con lui e commentando: "altro che spada!".

Umberto
Umberto, salito al trono il 9 gennaio 1878, era noto, secondo l'iconografia a lui favorevole, come "il re buono", ma le stragi da lui ordinate o avallate gli valsero il nome popolare di "re mitraglia".
Per il patriota e ministro Silvio Spaventa il re Umberto "è purtroppo ignorante: vale a dire che non ha la cultura necessaria ed adeguata a' tempi e al grado suo". Lo stesso Umberto diceva al figlio: "ricordati che ad un re basta saper fare la propria firma, leggere il giornale e montare a cavallo"
(Galzerano, 2001, pag. 147).
Per il suo aiutante di campo, il tenente colonnello Paolo Paolucci delle Roncole, il re non aveva interessi o curiosità culturali e nessuna propensione per le arti, non leggeva libri e anche lo scrivere gli era cosa disagevole e spossante
(Silipo).
Lo storico antifascista Gaetano Salvemini (1873–1957) in “Terrorismo e attentati individuali” del 1947 scrisse: “Umberto faceva il tiranno nel senso classico della parola tenendo mano allo strangolamento delle libertà […] La memoria di Bresci rimane circondata da un'aureola di simpatia e di gratitudine nella coscienza di molti italiani [...] la grande maggioranza del Paese trovò che Umberto quella palla di revolver non l'aveva rubata"
(Sacchetti).
Francesco Crispi definiva Umberto “un minchione che si lascia guidare da falsi scrupoli di costituzionalismo”, il sindaco di Roma Alessandro Guiccioli lo accusava di mancanza di volontà e del “chiaro intuito dell'alta e nobilissima missione che [gli] spetterebbe”, mentre il presidente del Senato Domenico Farini diceva che era poco schietto, volubile, spesso non sapeva nulla e non leggeva nemmeno i giornali. Una volta che gli era andato a parlare di una grave crisi di governo si accorse che Umberto si era addormentato. Inoltre non pensava che alla caccia e alle donne, offrendo il destro a mille pettegolezzi
(Felisatti).
Umberto era noto per la sua frenetica attività sessuale, oltre alla moglie aveva un'amante ufficiale, la duchessa Litta, nata Eugenia Attendolo Bolognini, amante anche di suo figlio Vittorio Emanuele e di Napoleone III, coinvolta nello scandalo finanziario della Banca Romana, e assolta come tutti gli altri potenti indagati
(Lisanti). Umberto, comunque, frequentava anche Rosa Vercellana "la bela Rosin", che era divenuta amante ufficiale di suo padre all'età di 16 anni. Umberto aveva bisogno di un continuo ricambio di donne, scelte da fotografie, ricevute a palazzo e congedate con una busta contenente denaro, il che richiama alla memoria governanti italiani più recenti. Lo stesso valga anche per la passione per le minorenni, ad esempio la quattordicenne contessina Cesarina Galdi, che mise incinta, come denunciato da lei stessa dopo il regicidio (Galzerano, 2001, pag. 147-155).

Dopo l'attentato
Dopo il regicidio Bresci si lasciò arrestare senza opporre resistenza, e dichiarò: "Io non ho ucciso Umberto. Io ho ucciso il re. Ho ucciso un principio". Almeno otto persone si contesero il "merito" di aver fermato Bresci; subito dopo alcuni dei presenti tentarono il linciaggio, dal quale fu sottratto dai carabinieri. L'anarchico mostrò sempre un contegno tranquillo, e un giornale di tre giorni dopo l'attentato informò: "mangia sempre cinicamente" (Galzerano, 2001). Dopo l'attentato le autorità stabilirono un cordone sanitario intorno a Monza e le notizie sul regicidio si diffusero con difficoltà. I primi resoconti giornalistici riferivano che il regicida era tale Angelo Bressi, per poi correggersi e fornire maggiori particolari.
Il criminologo Cesare Lombroso (1835-1909), vicino alle idee socialiste, in un testo del 1894 aveva definito Passannante e Acciarito come squilibrati, e degenerati, mentre classificò Bresci come un "criminaloide", di intelligenza mediocre, che aveva sofferto l'impoverimento della famiglia di origine, spinto al crimine dal fanatismo, ma non parte di un complotto, incompatibile con l'indisciplina e l'amorfismo che Lombroso attribuiva agli anarchici
(Galzerano, 2001, pag 838). Inoltre Lombroso, a proposito di Bresci, affermò che non vi erano segni di patologia o tratti criminali (secondo la pseudoscienza dell’epoca), sostenendo che per il regicidio “la causa impellente sta nelle gravissime condizioni politiche del nostro paese” indicando la colpa "massima delle classi dirigenti [la quale è] non di guarire i mali che ci guastano ma di colpire inesorabilmente coloro che li rivelano. Strano rimedio invero, che basterebbe da solo a mostrare fin dove siamo discesi(Zucca).
Lev Tol'stoj commento così il regicidio: "Questi, li si vede sempre in uniforme militare con a fianco lo strumento dell'assassinio, la sciabola. L'assassinio è per essi un mestiere. Ma basta che uno di loro venga assassinato e li udirete recriminare e indignarsi".
Il quotidiano socialista francese "L'Aurore", lo stesso che il 13 gennaio 1898 aveva ospitato il "J'accuse" di Émile Zola, che aveva riaperto l'affaire Dreyfus, pubblicò il 1° agosto un corsivo di Albert Goullé che terminava con "Quando un capo di stato ordina la morte di venti, cinquanta, cento uomini del popolo, sono gli assassinati ad essere dei criminali. Quando un uomo del popolo si fa vendicatore degli assassinati, è lui l'abominevole assassino".
L'attivista anarchico Luigi Galleani definì Bresci “il corrusco arcangelo della vendetta popolare e della giustizia sociale”, mentre Armando Borghi in “Errico Malatesta” (Milano, 1947) scrisse “Bresci ci veniva dall'estero armato di tre requisiti: una volontà di ferro, una pistola di precisione e un'ottima qualità di tiro
(Rosada).
Il leader comunista Palmiro Togliatti, nell'articolo "Due date" pubblicato su "Il comunista" del 17 agosto 1922 scrisse: "La morte violenta di re Umberto fu l'affiorare, in forma tragica ed esasperata, di un conflitto profondo, di un contrasto di forze reali […] che alla storia spetta ancora risolvere. Nella mano ferma e nell'occhio sicuro dell'anarchico individualista quasi simbolicamente prendevano forma la volontà e la forza delle masse, irosamente levate a protestare contro il potere dello Stato italiano oppressore, affamatore, fucilatore e sbirro"
(Affortunati, pag. 81).
Giuseppe Galzerano nella sua completissima opera su Gaetano Bresci
(2001), riporta una rassegna di commenti pubblicati in vari paesi, dopo l'attentato, in cui si evidenzia che diversi italiani autori di attentati a capi di Stato erano considerati eroi, come Felice Orsini che aveva attentato alla vita di Napoleone III, imperatore di Francia, Guglielmo Oberdan, che aveva tentato di uccidere l'imperatore austro-ungarico Francesco Giuseppe, Agesilao Milano, che aveva attentato alla vita del re delle Due Sicilie Ferdinando II, Antonio Carra, che aveva pugnalato a morte il duca Carlo III di Parma. Amilcare Cipriani, nell'opuscolo sopra citato, commentava: "non comprendo la ragione per cui lo stesso atto, secondo la persona che lo commette, o a cui è rivolto, è considerato un eroismo o un assassinio" (citato da Galzerano, 2001, pag. 52).

Tra le autorità che presentarono le proprie condoglianze per la morte di Umberto I c'era il presidente degli Stati Uniti William McKinley, che circa un anno dopo, il 14 settembre 1901, morì in seguito alle revolverate ricevute otto giorni prima a Buffalo dall'anarchico statunitense di origine polacca Leon Czolgosz, ispirato dal gesto di Gaetano Bresci, tanto che gli fu trovato addosso un ritaglio di giornale sull'attentato di Monza.
Bresci fu condotto nel carcere di Monza dove fu interrogato e torturato, come denunciato dagli anarchici, ma anche dal deputato socialista Filippo Turati, su "Critica sociale", e come intuibile da vari particolari, come le macchie di sangue lasciate sulla carrozza che lo traduceva da Monza a Milano e il fatto di muoversi zoppicando. Durante il processo uno dei giornalisti presenti scrisse "Sul volto porta ancora i segni delle percosse"
(Petacco). L'anarchico mantenne sempre un contegno tranquillo, a parte le proteste per l'obbligo di indossare la camicia di forza, motivato con la necessità di impedirgli di suicidarsi, il che appare come una costituzione anticipata di alibi, ai fini della messinscena del suicidio di Santo Stefano.

La famiglia di Gaetano dopo l'attentato
Nel 2020 Andrea Sceresini su "La Repubblica" ha pubblicato notizie inedite sulla sorte della moglie e delle figlie di Gaetano Bresci dopo l'attentato di Monza. Sophie Knieland cambiò il suo cognome in Niel
(Mazzone) e, dopo la morte di Gaetano, si trasferì a Cliffside Park, nel New Jersey, il cui sindaco nel settembre del 1901 le intimò di andarsene "per prevenire eventuali problemi". Sophie si risposò con il sindacalista di origini tedesche Joseph Mang e andò ad abitare nei sobborghi di Newark, presso New York. Nel 1912 si separò da Mang e si trasferì a Chicago, dove Muriel fu lasciata in custodia presso un gruppo di anarchici, mentre Sophie e Madeline si trasferirono a Glacier Park nel Montana, dove la madre lavorò come cuoca in una tavola calda. Nel 1913 la famiglia si riunì a Seattle, e dopo un anno si trasferì in California, dove Sophie lavorò come cuoca e le figlie andarono a servizio presso famiglie, e presero casa a San Francisco in Monterey Boulevard. Madre e figlie aprirono un chiosco nella zona del porto, all'inizio ebbero problemi con la malavita locale, risolti grazie all'aiuto dei portuali, in seguito Sophie aprì un salone di bellezza e le figlie fondarono un gruppo musicale femminile, le "Lorelei Syncopaters" (vedi foto, Madeline e Muriel sono la terza e la quarta da sinistra). Sophie morì a San Francisco nel 1932 a 67 anni. Madeline si sposò e morì a San Francisco nel 1974. Muriel si sposò, ebbe tre figlie e si trasferì a Fresno, sempre in California, dove morì nel gennaio 1981, e fu sepolta nel cimitero locale con il nome del marito, Mitchell.

Il "complotto"
Durante gli interrogatori i carabinieri cercarono di far confessare a Bresci la presenza di complici, cosa che l'anarchico non ammise mai, spiegando anzi ai suoi carcerieri le ragioni del suo gesto. Bresci dava risposte di una "sottilezza inarrivabile", irritando il colonnello dei carabinieri per "il modo purtroppo convincente col quale si esprimeva"
(Galzerano).
Dopo l'attentato sulla stampa mondiale circolarono notizie e testimonianze fantasiose sulla presenza di Bresci prima dell'attentato nei paesi più disparati, da Budapest a Barcellona, da Bratislava a Ginevra, da Londra a Bruxelles, da Vienna a Fiume e addirittura a Buenos Aires.
Il famoso detective italo-americano Joe Petrosino aveva anche indagato negli ambienti libertari di Paterson per scoprire complici e mandanti dell'attentato di Monza, concludendo che il regicidio era frutto di un complotto ordito da un gruppo di anarchici di Paterson affiliati alla "Mano Nera" (che all'epoca aveva ancora connotazioni libertarie) e che Bresci era stato designato mediante l'estrazione a sorte con i numeri della tombola
(Toscano). Durante le indagini sull'uccisione di McKinley, Petrosino interrogò e maltrattò pesantemente Sophie Knieland, compagna di Bresci (Toscano).
Nel corso delle indagini, in Italia e negli USA, emerse una pletora di persone che testimoniarono, dopo l'attentato, di averne avuto notizia in anticipo, da numerosi ed eterogenei complici di Bresci, che spesso si rivelavano addirittura inesistenti anagraficamente. Avanti! del 26 agosto 1900 commentò: "I complici del regicida sono a quest'ora più numerosi dei soldati di Serse: rossi e neri, gialli e azzurri, hanno preparato il delitto"
(Galzerano, 2001, pag. 341).
I vertici della sicurezza dello Stato, e in particolare il ministro dell'interno Giovanni Giolitti, seguirono con molta convinzione la pista di un complotto diretto dalla ex regina del regno delle Due Sicilie, Maria Sofia di Baviera, in esilio all'epoca a villa Hamilton, a Neuilly-sur-Seine, presso Parigi, il cui salotto, oltre ad aristocratici e intellettuali, ospitava anarchici e rivoluzionari socialisti e repubblicani, visti con favore in funzione anti-Savoia. Per queste frequentazioni Maria Sofia fu chiamata da Marcel Proust "regina degli anarchici", sebbene fosse la sorella di Elisabetta di Baviera, detta "Sissi", imperatrice d'Austria uccisa nel 1898 a Ginevra all'età di 61 anni dall'anarchico italiano Luigi Lucheni. Oltre a sospettare che Maria Sofia avesse finanziato e protetto Bresci ed altri presunti complottardi, i servizi segreti italiani, infiltrati tra gli anarchici italiani in esilio, si erano convinti che fosse in atto un piano per liberare Gaetano Bresci dal carcere, e in seguito dal penitenziario.
Un procedimento bis per l'omicidio di Umberto, dedicato ai presunti complici di Bresci, nonostante il gran numero di persone inquisite, anche in modo brutale, non riuscì ad andare oltre la fase istruttoria, per l'assoluta inconsistenza delle prove raccolte.
Anni dopo Pietro Acciarito, attentatore fallito del 1897, a chi gli chiedeva se Bresci fosse stato istigato da qualcuno, rispose: "Qualunque società sia non può prendere un uomo e dirgli ammazza. Io dico che Bresci agì da solo, se mai l'incoraggiamento lo avrà avuto dalla miseria"
(Galzerano, 2001, pag. 345).
Per molti anni, comunque, fu braccato come complice di Bresci l'anarchico Luigi Granotti, di Sagliano Micca (Biella), detto "il biondino" (pur non essendo biondo). Granotti era venuto in Italia da Paterson due settimane dopo Bresci, che era con lui a Monza nei giorni del regicidio, sarebbe arrivato in treno insieme a Bresci, avrebbe cercato con lui alloggio nella stessa pensione e non trovandolo, avrebbe soggiornato presso la locanda del Mercato, nella stessa zona.
Granotti era fuggito dall'Italia qualche giorno dopo, valicando le Alpi a Gressoney, e passando in Svizzera. Nonostante la condanna all'ergastolo in contumacia ricevuta il 25 novembre 1901 non è affatto certo che Granotti abbia partecipato al regicidio o ne fosse a conoscenza in anticipo. Luigi Granotti fu ricercato per decenni, con numerosissimi falsi avvistamenti in tutto il mondo, da Shanghai a Buenos Aires, da Londra a San Francisco, da Chicago a Singapore, e comunque non rientrò mai in Italia e morì a New York nel 1949 (link).

La reazione
Il regicidio scatenò la risposta dei settori più reazionari del paese. La città di Prato, luogo natale di Bresci e quella di Monza, teatro incolpevole del regicidio, furono colpite da una sorta di damnatio memoriae, tanto che la Villa Reale di Monza, luogo abituale di villeggiatura dei reali, fu praticamente abbandonata. Nessun membro della famiglia reale mise piede a Prato prima di fine ottobre 1927, con la visita del principe ereditario Umberto, seguito il 3 novembre 1933 dalla regina Elena. Nel 1934 Vittorio Emanuele fu a Prato per una brevissima visita per inaugurare il monumento ai caduti, ma senza firmare l'albo dei visitatori illustri
(Meoni).
Sul campo della società sportiva "Forti e liberi", nel punto esatto del regicidio, fu costruita una cappella memoriale in forma di stele, detta "Cappella reale espiatoria", inaugurata nel 1910, nella cui cripta si trova un cippo, posto sul punto esatto in cui Bresci uccise Umberto. La sede e il campo della società sportiva "Forti e liberi" furono trasferiti e si trovano tuttora in via Cesare Battisti, a pochi metri dal luogo originale.
La vendetta contro Bresci da parte dei reazionari e dei poteri costituiti coinvolse anche la sua famiglia: il fratello Lorenzo, calzolaio, fu perseguitato e incarcerato, finché non si tolse la vita, tre anni dopo. L'altro fratello, Angiolino, tenente di artiglieria di carriera, fu costretto a cambiare cognome, assumendo quello della madre, per non perdere il posto. Molti altri italiani di nome Bresci preferirono cambiare cognome per evitare rappresaglie e aggressioni. Furono arrestati anche il cognato, Augusto Marocci, operaio del Fabbricone, e l'organizzatore sindacale Giulio Braga, ed altri anarchici pratesi, tra i quali Luigi e Carlo Masselli, sorpresi a strappare le insegne del lutto nazionale.
Il Corriere della Sera del 9 agosto 1900, in una corrispondenza da Parigi, chiamò addirittura in causa l'istruzione elementare come fattore di incitamento al regicidio, visto che permetteva agli operai di leggere, e quindi di consultare giornali sovversivi. Prova ne sarebbe stata il fallito attentato allo Scià di Persia Muzaffar al Dîn a Parigi, il 1° agosto, tre giorni dopo quello di Monza, il cui autore, l'anarchico François Salson, sarebbe stato istigato dalla lettura delle gesta di Bresci
(Galzerano, 2001, pag. 217). Il filosofo liberale Benedetto Croce (1866-1952) menzionò Bresci come "un anarchico venuto dall'America" senza nemmeno citarne il nome (Petacco).
I reazionari aggredirono anche repubblicani e socialisti e le loro sedi, mentre le forze dell'ordine non solo non difendevano gli aggrediti, ma li arrestavano e li malmenavano a loro volta.
Il socialista Alfredo Angiolini
(1900) scrisse: "Non v'era dunque nessuna ragione d'inveire contro i socialisti, eppure i giornali della reazione cominciarono a parlare di complotti, accusarono i socialisti come istigatori e responsabili morali dell'omicidio, invocarono nuovi provvedimenti, nuove misure eccezionali contro tutti i sovversivi, fecero pressioni sopra il ministero, perché rimettesse in vigore que' metodi liberticidi che avevano contraddistinto il ministero Pelloux, aizzando i monelli e i bassifondi della società contro i giornali socialisti, contro la società democratica".
Per oltre un anno si svolsero centinaia di processi per apologia di reato, per fatti del tutto trascurabili, se non ridicoli, che però si concludevano spesso con condanne per gli imputati, dando oltretutto la sensazione che il popolo italiano fosse lontano dal condannare in blocco il regicidio e che invece Bresci godesse di una notevole simpatia e solidarietà, soprattutto tra le classi meno abbienti.
La chiesa cattolica si distinse per l'estrema freddezza nei confronti del lutto della famiglia reale e dell'Italia, con la quale non c'erano rapporti diplomatici dopo la conquista di Roma, con la breccia di Porta Pia del 20 settembre 1870 (vedi la mia pagina web). Il papa Leone XIII, ormai novantenne, rifiutò ogni concessione di riti religiosi in memoria di Umberto, il giornale vaticano l'Osservatore Romano spiegò con gelida laconicità l'atteggiamento ostile della chiesa cattolica nei confronti del Savoia. Inoltre diversi preti furono condannati per apologia del regicidio.

Il processo
In un solo mese era stato istruito il processo, il 17 agosto la Sezione d'Accusa emise la sentenza di rinvio a giudizio. Per decisione del presidente Luigi Gatti, il dibattimento durò solo un giorno, tra le 9 e le 18 del 29 agosto 1900 in corte d'Assise, a Milano, nel palazzo del Capitano di Giustizia, in Piazza Beccaria, pesantemente presidiato dalle truppe. La corte rifiutò la richiesta della difesa di un rinvio del processo a tempi più sereni. Bresci aveva chiesto di essere difeso da Turati che, dopo un colloquio con lui il 20 agosto, il giorno successivo gli aveva comunicato il suo rifiuto, anche perché non esercitava da dieci anni. Turati descrisse il prigioniero come simpatico, senza tratti anormali, ma con "una figura fredda e concentrata, quasi glaciale da rendere impenetrabile il suo pensiero", ma che teneva a non apparire come un volgare delinquente. Il leader socialista però lo giudicò di intelligenza molto limitata
(Galzerano, 2001, pag. 235).
Le idee di Turati a proposito del regicida di Monza sono espresse chiaramente in un articolo a lui attribuito, "La successione", pubblicato su "Critica Sociale" del 1° agosto 1900: "uno di quegli squilibrati, che in ogni tempo sfogarono la loro irritazione impulsiva, e che nei tempi moderni - per uno strascico sempre più attenuantesi, della psicologia generata dalle rivoluzioni borghesi - si illudono talvolta ancora di modificare qualcosa di essenziale nel congegno politico, uccidendo chi ne incarna la parte più superficiale e decorativa"
(Galzerano, 2001, pag. 445).
Turati consigliò a Bresci l'avvocato napoletano Francesco Saverio Merlino, anarchico in gioventù, già agitatore politico negli Stati Uniti per organizzare i lavoratori italiani, presente anche a Paterson nel novembre 1892, e che all'epoca del processo simpatizzava per i socialisti rivoluzionari, pur senza praticare attività politica. Nel 1895 Merlino, mentre era detenuto, si era candidato per le elezioni politiche nel collegio di Prato, sostenuto da anarchici e socialisti
(Affortunati, pag. 59). Merlino fu nominato il giorno prima del processo, e chiese invano un rinvio per poter studiare l'ingente mole di carte, e per poter citare testimoni a discarico residenti negli USA, anche per appurare l'eventuale esistenza di un complotto nato a Paterson del quale Bresci sarebbe stato l'esecutore materiale. Merlino era affiancato dall'avvocato Mario Martelli, presidente dell'Ordine degli avvocati di Milano, all'inizio nominato difensore d'ufficio.
I cronisti dei giornali borghesi si scatenarono in descrizioni negative di Bresci, definendolo "antipatico", "sciagurato", "avvilito e affranto", "nervoso e asimmetrico", "repulsivo", "vipera", "belva", "degenerato", "rettile", "abbietto" e "pervertito". Fisicamente era "piuttosto brutto", o per altri "molto brutto", dotato di "occhio incavato", "sguardo obliquo", "espressione sinistra", "naso grosso", "mento corto e sporgente"(?!), e addirittura "unghie lunghe". Appariva poi "ossuto ma non poderoso", "magro", con "lineamenti molto marcati", caratterizzato da "pallore profondo del viso", "voce debolissima e tremante", "privo di ogni energia fisica e mentale", per non tacere del fatto che "ostenta ferocia e genera ripugnanza", e che "il disgusto che suscita diventa nausea"
(Galzerano, 2001, pag. 270-275). Addirittura il Correre della Sera del 31 agosto 1900 se la prese con la figlia di Bresci, Maddalena, "esile e malaticcia, la quale a diciotto mesi non aveva ancora spuntato i denti incisivi" (Galzerano, 2001, pag. 322).

Anche durante il processo la pubblica accusa, nella persona del Procuratore generale reggente presso la Corte d'appello di Milano Nicola Ricciuti, cercò di accreditare la tesi di un complotto anarchico per uccidere Umberto, dimostrata secondo lui dal fatto che l'imputato veniva da Paterson, sede di una folta colonia anarchica. Bresci comunque sostenne sempre di aver agito da solo e di propria iniziativa.
L'avvocato Merlino, arrivato da Roma senza poter dormire, perché dovette studiare in treno gli atti disponibili, fu pedinato da poliziotti in borghese. Durante l'udienza fu più volte interrotto dal presidente, dal Pubblico Ministero e dal pubblico, che "Il Mattino" di Napoli definì "di giornalisti, di questurini in borghese e di carabinieri", e cercò di far ragionare sul fatto che la violenza dei singoli era alimentata e non soffocata dalla violenza e dalla repressione dello Stato, e sull'utilità di fare giustizia, invece che vendetta, per non generare ulteriori atti di ribellione violenta, come il regicidio.
L'avvocato Martelli nella sua breve arringa difensiva sostenne invece che Bresci, pur non essendo pazzo, era ossessionato dall'errata identificazione del re con lo Stato, e chiedeva anch'egli di fare giustizia e non vendetta.
Bresci fu condannato per il delitto di regicidio "alla pena dell'ergastolo, di cui i primi sette anni in segregazione cellulare continua, all'interdizione perpetua dei pubblici uffici, all'interdetto legale, alla perdita della capacità di testare ritenendo nullo il testamento che per avventura fosse da lui stato fatto prima della condanna" (la pena di morte era stata abolita in Italia dal codice penale Zanardelli del 1889).
L'art. 117 dello stesso codice prevedeva "chiunque commette un fatto diretto contro la vita, la integrità o la libertà della sacra persona del Re è punito con l'ergastolo" mentre l'art. 12 dello stesso Codice prevedeva che "La pena dell'ergastolo è perpetua. Si sconta in uno stabilimento speciale, dove il condannato rimane per i primi sette anni in segregazione cellulare continua, con l'obbligo del lavoro". Sembra che la compagna Sophie, alla notizia della condanna, avesse inoltrato una supplica alla regina madre, circostanza smentita dagli ambienti anarchici di Paterson.
Bresci rifiutò di ricorrere in Cassazione contro la sentenza; visitato in carcere dall'avv. Caberlotto, collaboratore del difensore d'ufficio avvocato Martelli, dichiarò che si appellava solo alla prossima Rivoluzione. La sentenza di condanna fu affissa l'8 settembre sulle cantonate di Milano.

Santo Stefano
Le modalità della detenzione e dei trasferimenti di Bresci furono sempre tenute nascoste per timore che i suoi compagni anarchici cercassero di liberarlo. Il condannato fu prima recluso in isolamento nel carcere milanese di San Vittore, per essere poi imbarcato a La Spezia il 30 novembre 1900. Bresci sbarcò dall'avviso a ruote Messaggero della Regia Marina alle 7 del 23 gennaio 1901 sull'isola di Santo Stefano, nell' arcipelago delle isole Ponziane (vedi la mia pagina), e alle 12 fu preso in consegna sul registro del penitenziario dell'isola.
Durante il trasferimento per mare a Santo Stefano, l'equipaggio aveva la consegna di non scambiare alcuna parola con Bresci, ma sembra che un marinaio, Salvatore Crucullà, durante il trasbordo in barca a remi dal "Messaggero" all'isola, abbia domandato all'anarchico perché avesse ammazzato il re. Bresci avrebbe risposto: "L'ho fatto anche per te", scatenando le risate dell'equipaggio, che non comprese il significato della frase.
Le due date di arrivo e partenza sono incompatibili con la relativamente breve distanza tra La Spezia e Santo Stefano, e questo potrebbe essere spiegato con una detenzione intermedia, citata all'epoca dai giornali, nel penitenziario di Portoferraio sull'isola d'Elba, in una delle venti celle che formano la sezione d'isolamento denominata "la Rissa", a tre metri sotto il livello del mare, nella quale, sotto una finestra, Bresci avrebbe scritto la frase: "la tomba dei vivi". Il tempo passato a Portoferraio sarebbe stato quello necessario ad allestire la cella riservata a Bresci a Santo Stefano
(Zucca), ma secondo Petacco il trasferimento fu dovuto alla constatazione della solidarietà degli altri detenuti verso Bresci, anche per la detenzione continua in catene, che non era più ammessa dalla legge.
Secondo un inchiesta de Il Mattino di Napoli, a cura del cavalier G. Di Properzio, che si recò a Santo Stefano due giorni dopo la morte ufficiale di Bresci, il detenuto sarebbe partito in incognito da Milano per La Spezia, con treno direttissimo la sera del 21 gennaio 1901, scortato dal Direttore generale delle carceri Alessandro Doria e da cinque carabinieri. Dalla stazione della Spezia, sempre in incognito, e completamente rasato, sarebbe stato portato con una vettura di piazza all'Arsenale, da dove si sarebbe imbarcato sul "Messaggero" per Santo Stefano, giungendo dopo quasi due giorni.
A S. Stefano fu modificata una cella appositamente per Bresci, la Direzione Generale delle Case di pena ne mandò il progetto al cavalier Vito Cecinelli, direttore del carcere: era assolutamente identica a quella che Alfred Dreyfus occupava sull'Isola del Diavolo dal 1895 e che avrebbe occupato ancora fino al 1906. Nella cella in precedenza era stato sepolto vivo Pietro Acciarito, il fallito attentatore di Umberto I del 1897, prima di essere portato nel 1904 nel manicomio criminale di Montelupo Fiorentino, dove concluse i suoi giorni nel 1943.
Leggermente più piccola di quelle comuni, la cella numero 237 era di 3 x 3 metri: le uniche suppellettili consistevano in un letto in legno e materasso in crine (che, rialzati, durante il giorno, dovevano essere legati alla parete con grosse cinghie di cuoio), uno sgabello fissato al pavimento, un catino di legno, e il tradizionale bugliolo. La cella era separata dalle altre, le due celle ai lati erano occupate dalle guardie, ed era situata in fondo ad un corridoio ricavato in mezzo agli uffici e ai magazzini. Era isolata anche la terrazza per l'ora d'aria, in modo che il detenuto anche in quel momento di attenuazione della reclusione fosse separato dagli altri detenuti. La terrazza era l'unico punto in cui gli altri reclusi avrebbero potuto teoricamente vedere Bresci, ma la sua ora d'aria coincideva con un momento in cui i compagni di detenzione erano rinchiusi, tanto che essi capirono che Bresci era morto proprio perché terminò questa loro interdizione quotidiana a uscire
(Mariani). Sulla terrazza c'erano anche due garitte per le due guardie che lo sorvegliavano in ogni momento.
Il 18 maggio l'ispettore Alessandro Doria si recò a Santo Stefano, visitò il carcere, e ordinò al direttore di togliere al detenuto l'uso di un basso sgabello, visto che poteva sedere in terra e appoggiarsi al letto, di proibirgli di tenere un fazzoletto e di indossare maglie di cotone, oltre che di acquistare saponette. Gli fu anche proibito di scrivere o ricevere lettere dalla sua compagna Sophie
(Galzerano, 2001, pag. 799).
Bresci aveva i piedi incatenati e la divisa con colletto nero, riservato agli ergastolani condannati per i delitti più gravi, mentre gli altri detenuti lo avevano giallo. Il suo vitto consisteva in una gamella di zuppa magra e una pagnotta. In più poteva acquistare generi alimentari allo spaccio, ma lo fece raramente: delle sessanta lire depositate presso l'amministrazione (e spedite dall'America dalla moglie) ne spese meno di dieci
(Centini)
Anche a Santo Stefano Bresci dimostrò un comportamento tranquillo, e accettò la visita del cappellano del carcere, don Antonio Fasulo, ma solo per avere dei libri. Ricevette una copia della Bibbia, e una delle Vite dei Santi Padri, che non gradì, e quindi chiese anche il vocabolario italiano-francese di Cormon e Manni, che venne trovato aperto e spiegazzato nella sua cella, al momento del rinvenimento ufficiale del suo cadavere. Bresci aveva anche a disposizione il bollettino mensile della Rivista di disciplina carceraria, concepito per l'educazione dei detenuti, contenendo racconti edificanti, morali e patriottici, quarto ed ultimo libro in dotazione alla piccola biblioteca del penitenziario
(Zucca).

La morte
L'ufficio matricola della Regia Casa di Pena di Santo Stefano registrò la morte del detenuto "Gaetano Bresci fu Gaspero, condannato all'ergastolo per l'uccisione a Monza del re d'Italia". Gaetano Bresci aveva trentadue anni.
Il secondino Antonio Barbieri affermò di aver trovato morto Gaetano Bresci alle 15:00 di mercoledì 22 maggio 1901, dopo dieci mesi di reclusione. Alle 14:45 Barbieri aveva visto Bresci vivo, che leggeva vicino alla finestra della cella. Secondo la versione ufficiale Bresci si sarebbe strangolato con un asciugamano o con un fazzoletto (secondo due versioni, entrambe ufficiali), attaccandosi alla inferriata della finestra, sfuggendo alla sorveglianza continua dallo spioncino, mentre il sorvegliante alle 14:50 si era assentato pochi minuti per espletare bisogni fisiologici, e senza fare alcun rumore, nonostante avesse i piedi chiusi in una lunga catena, fissata a un muro della cella, che faceva rumore ad ogni minimo movimento del condannato. I due secondini Barbieri e De Maria furono sospesi dal servizio.
Il secondo agente di custodia, Giovanni De Maria, secondo la versione ufficiale dormiva, e accorse al richiamo di Barbieri, insieme al detenuto Leonardo Tamorria, un fabbro originario di Partinico (Palermo), che aveva libertà di movimento all'interno del carcere, dato che vi svolgeva servizi generali. Dal registro carcerario risulta che l'ultima ispezione era stata eseguita alle 9:30 e l'ultima battitura di controllo delle sbarre alle 13:10.
Secondo Rivista Anarchica la prima versione ufficiale, che chiamava in causa un asciugamano, sarebbe stata modificata, quando si seppe che ai detenuti non era permesso tenere asciugamani in cella, prevedendo un fazzoletto, che doveva essere abbastanza grande per consentire di impiccarsi. Altre versioni chiamano in causa una tovaglia (non si sa da dove avrebbe potuto provenire, non avendo Bresci nemmeno un tavolo), una cravatta (non si sa come potesse essere in possesso del detenuto), aggiunta all'asciugamano, oppure il colletto della divisa carceraria o i pantaloni tagliati a strisce e annodati a formare una corda. Questi oggetti non risulta siano stati trovati nella cella, anzi il medico del carcere Francesco Russolillo, al primo esame del cadavere notò che indossava la divisa a strisce bianche e nocciola, con i pantaloni intatti. Il forte e fondato sospetto è quindi che Bresci sia stato ucciso, magari in una data anteriore a quella dichiarata ufficialmente.
Il settimanale francese Le Petit Journal in un breve trafiletto del numero del 9 giugno 1901 attribuisce il suicidio alle condizioni disperate di detenzione in isolamento, e per risolvere il problema dell'elusione della sorveglianza, ipotizza che i secondini abbiano volutamente lasciato fare Bresci, per motivi umanitari, permettendogli di porre fine alle sue sofferenze. Un altro settimanale francese, L'Assiette au beurre, del 6 giugno 1901 invece rappresenta in copertina il corpo impiccato di Bresci osservato da una guardia, un prete e un borghese con in cilindro, e in calce riporta un commento di Vittorio Emanuele III: "è il meglio che potesse succedere".
Gaetano Bresci, come d'abitudine, aveva lasciato parte della propria razione, ricevuta al mattino, una gamella di minestra di magro con legumi e pasta, e del pane grigio, per consumarla per cena, il che non fa pensare ad una persona in procinto di suicidarsi.
Il dottor Russolillo, che riferisce di aver visto il cadavere di Bresci subito dopo il rinvenimento, ancora con la "corda" al collo, racconta del quadro tipico di una morte per strangolamento. L'anarchico Amilcare Cipriani, già detenuto in penitenziario per otto anni, giudica del tutto impossibile l'ipotesi del suicidio, sia per la sorveglianza continua, sia perché nessun detenuto poteva essere in possesso di fazzoletti, asciugamani o qualunque altro pezzo di stoffa adatto a formare una corda, mancando inoltre un supporto al quale agganciarlo.
Alcune coincidenze potrebbero avvalorare la tesi dell'omicidio di stato: il Direttore generale delle carceri Doria sarebbe stato promosso due mesi dopo la morte di Bresci, ed avrebbe avuto lo stipendio più che raddoppiato (passando da 4.500 a 9.500 lire annue). Il detenuto anarchico Ezio Taddei, riferì il racconto di un vecchio ergastolano, secondo il quale Bresci sarebbe stato strangolato da un detenuto, il capo-mozzo Sanna, che due giorni dopo la morte di Bresci, fu trasferito a Procida e poi liberato con la concessione della grazia sovrana, forse come premio per l'omicidio
(Galzerano, 2001, pag. 855).
Sandro Pertini, in un intervento del 19 novembre 1947 all'Assemblea Costituente disse: " ... parlo per esperienza personale (...) . In carcere, onorevole Ministro, si fa questo: si percuote un detenuto; sotto le percosse il detenuto muore, ed allora tutti si preoccupano e si preoccupano non soltanto gli agenti di custodia che hanno percosso il detenuto, ma anche il direttore, il medico, il cappellano e tutti coloro che fanno parte del personale di custodia. Ed allora fanno questo: denudano il detenuto, lo legano all'inferriata e lo fanno trovare così appeso. Viene il medico e fa il referto di morte per suicidio. Questa fu la fine di Bresci. Bresci è stato percosso a morte, poi hanno appeso il cadavere all'inferriata della sua cella di Santo Stefano, dove io sono stato un anno e mezzo".
Ugoberto Alfassio Grimaldi, citando testimonianze di detenuti politici, scrive di Bresci: "Quel 22 maggio tre guardie gli avevano fatto il “Santantonio”: cioè coperte e lenzuola addosso e poi bastonate fino alla fine; i resti erano stati seppelliti, in luogo rimasto senza traccia negli archivi di S. Stefano, da due ergastolani mandati appositamente da un’altra casa di pena e ricondotti subito via; il comandante dell’ergastolo era stato promosso e le tre guardie premiate".
Dai documenti privati dell'ex Presidente del Consiglio Francesco Crispi, risulta che già il 18 maggio, quattro giorni prima della data "ufficiale" del decesso, a Santo Stefano era presente un rappresentante del governo, il citato ispettore Alessandro Doria. Per questa visita il direttore del carcere aveva chiesto al ministero se dovesse consentire a Doria di vedere Bresci. Inoltre il 24 maggio, due giorni dopo la morte "ufficiale", i medici che eseguirono l'esame necroscopico, trovarono il corpo in avanzato stato di decomposizione. Secondo la testimonianza di un ex-recluso, Bresci fu addirittura ucciso quindici giorni prima, il 7 maggio, tanto che un giornalista che assistette alla sua sepoltura riferì che il cadavere aveva un forte odore di putrefazione
(Rivista Anarchica; Galzerano, 2001, pag. 843).
Il cadavere di Bresci fu sottoposto a esame necroscopico da parte di ben quattro medici legali, tra i quali il prof. Corrado, titolare della cattedra di medicina legale dell'Università di Napoli e i dottori Gianturco e De Crecchio. Della minuziosa relazione redatta dai medici non è rimasta traccia
(Galzerano, 2001, pag. 818).
Il giornale anarchico italo-americano L'Aurora dell'8 giugno 1901 (supplemento al n. 34) immagina (o racconta?) che il re Vittorio Emanuele III si sia recato in incognito a Santo Stefano per chiedere conto a Bresci dell'omicidio di suo padre Umberto, che la risposta dell'anarchico sia stata sprezzante, e che le guardie del carcere abbiano soffocato Bresci nella sua stessa cella
(Galzerano, 2001, pag. 845-848).
Gaetano Bresci condivise con altri prigionieri la sorte di essere assassinato da quelli che dovevano custodirlo. Tra gli altri Costantino Quaglieri (vedi la mia pagina su di lui), ucciso nel carcere romano di Regina Coeli nel 1894, Romeo Frezzi, ucciso nel carcere romano di San Michele a Ripa nel 1897 (vedi la mia pagina su di lui), il giovane comunista calabrese Rocco Pugliese, ucciso come Bresci a Santo Stefano nel 1930 (vedi la mia pagina su di lui), e il ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, gettato da una finestra della questura di Milano il 16 dicembre 1969, cent'anni e un mese dopo la nascita di Gaetano Bresci, e mai dimenticato.

Dopo l'assassinio
Dal registro del carcere, che descriveva vita e morte dell'ergastolano, manca la pagina con il numero 515, la matricola di Bresci. Anche all'Archivio Centrale dello Stato, a Roma, non c'è nulla che riguardi Gaetano Bresci. Secondo Arrigo Petacco
(1929-2018), autore di una fortunata biografia di Bresci, è anche scomparso il contenuto del fascicolo che, tra le "carte segrete" di Giolitti, racchiudeva la documentazione non ufficiale sulla morte su Bresci.
Il corpo di Bresci sarebbe stato sepolto il 26 maggio 1901 nel cimitero di Santo Stefano, e nella fossa sarebbero state gettate anche tutte le sue cose. Secondo altre fonti il corpo di Bresci fu invece gettato in mare, come auspicava Il Mattino di Napoli in un editoriale firmato "Vagus"
(Galzerano, 2001, pag. 837). Il giornalista e gastronomo Luigi Veronelli (1926-2004) si impegnò nella ricerca della tomba di Bresci, e disegnò una mappa delle sepolture del cimitero, a partire da indizi presenti su di esse, comprese quelle dei confinati dell'epoca fascista, che, come quelle più antiche, non recavano indicazioni. Nel settembre 1964 Veronelli identificò una croce che recava il cartiglio "Gaetano Bresci 22 maggio 1901" (ParmaDaily, Galzerano, 2001, pag. 821).
Della detenzione dell'anarchico rimase soltanto un cimelio, il berretto da ergastolano: contrassegnato con il numero 515, il copricapo era conservato nel piccolo museo del penitenziario insieme al berretto di Pietro Acciarito, l'attentatore a Umberto I del 1897. Entrambi i berretti andarono distrutti durante una rivolta dei detenuti scoppiata a Santo Stefano nel novembre del 1943.
Nel museo criminologico di Roma sono poi conservati alcuni oggetti sequestrati a Bresci dopo l'arresto: la rivoltella che gli era servita per uccidere il re Umberto I, una macchina fotografica, reagenti per lo sviluppo delle foto e due valige con effetti personali.

 

Ricordo
Il 29 luglio di ogni anno, a partire dal 1901, gli anarchici ricordarono il regicidio di Monza e la figura di Gaetano Bresci, con numeri speciali di giornali ed opuscoli, prodotti fuori dall'Italia, nelle zone in cui si trovavano colonie di emigranti italiani, come gli Stati Uniti, il Brasile, l'Argentina, la Francia e la Svizzera. Le pubblicazioni, oltre che essere diffuse localmente, erano spedite o introdotte clandestinamente in Italia, destinate agli anarchici della madre patria.
Molti dei testi commemorativi avevano in comune un sentimento di riprovazione verso il popolo italiano, che non aveva colto l'occasione del regicidio per insorgere e rovesciare un regime antipopolare e liberticida.
In onore dell'anarchico pratese venne dato il nome di battesimo di Bresci Thompson (1908-2004), pittore e scultore statunitense, nato a Manhattan e poi trasferitosi a Chelsea.
Il 27 luglio 1947 la Federazione anarchica lombarda organizzò presso il Cinema Astra di Monza, in via Manzoni (vedi foto dell'attuale edificio moderno che si trova sul posto), una manifestazione in ricordo di Gaetano Bresci, alla quale prese parte un migliaio di persone. Al termine fu scoperta una lapide, in "un tripudio di bandiere anarchiche", a poche decine di metri dalla "Cappella espiatoria". Il giorno seguente la questura di Milano rimosse e sequestrò la targa (link).
Nel 1971 il critico cinematografico e sceneggiatore Tullio Kezich (1928-2009) pubblicò il lavoro teatrale “W Bresci: storia italiana in due tempi”, definito dall'autore “psicodramma grottesco” che metteva in scena gli eventi storici che portarono al regicidio di Monza, dal giubilo della corte sabauda e dei militari per la repressione dei moti di Milano agli echi di un possibile colpo di stato promosso dagli stessi ambienti della corte e dei ceti dominanti, al servilismo della stampa e di una compagnia teatrale che cerca di mettere in scena il regicidio, senza inquietare la censura, al processo durato un giorno senza lasciare alcuna possibilità alla difesa. Kezich descrive Vittorio Emanuele III come un opportunista che cerca di non fare la stessa fine del padre con una politica accorta e meno violenta, in contrasto con la madre Margherita, fautrice di una risposta reazionaria. Kezich arriva alla conclusione che si devono uccidere tutti i re nel cuore e nella mente della gente, sradicando la fede nel principio di autorità.
Nel 2002, in occasione del rientro in Italia dei membri maschi di casa Savoia, dopo la rimozione del bando previsto dalla Costituzione, a Prato comparve una scritta sul muro: “I Savoia tornano ... i compagni di Gaetano … pure
(Borsini).
Il 29 luglio del 2004, nel 104° anniversario del regicidio, gli anarchici torinesi hanno ricoperto il monumento a Umberto I che sorge sulla collina di Superga a Torino, ed hanno apposto una lapide in ricordo di Gaetano Bresci.
A Carrara, cuore dell'anarchismo italiano, il 2 maggio 1988 è stato inaugurato un monumento a Bresci, opera dello scultore Sergio Signori. L'opera, rimasta incompiuta per la morte dell'artista, sorge a Turigliano, nei giardini davanti al cimitero, intitolati a Gaetano Bresci, ed è stata eseguita su commissione dell'artigiano anarchico Ugo Mazzucchelli
Diversi attori e musicisti hanno ricordato il sacrificio di Gaetano Bresci (vedi i link a fondo pagina).
Nelle immediate vicinanze della Cappella espiatoria costruita a Monza sul luogo del regicidio, si trovano due scritte murali inneggianti a Bresci, una sul viale di accesso ed una sul muro di recinzione.
Al momento sembra che una sola via sia stata dedicata a Gaetano Bresci, proprio a Prato, sua citta natale, non lontano da Coiano, la località in cui si trovava la sua casa. La giunta di Prato guidata dal sindaco Lohengrin Landini il 1° luglio 1976 deliberò di intitolare una via a Bresci: “appare meritevole di menzione per motivazioni inerenti la storia italiana del primo novecento e il significato che in tale contesto viene ad assumere la figura del cittadino pratese” e inoltre “La sua memoria si affida, nella valutazione storica, al riconoscimento che l'atto da lui compiuto condusse ad una svolta della politica italiana in campo sociale, dopo le sanguinose e reazionarie repressioni che erano succeduta alla guerra d'Africa e ai moti del 1898”. La risoluzione fu votata all'unanimità dai 38 consiglieri presenti
(Mazzone). Viceversa a Prato nessuna via è stata dedicata ai re o ad altri membri di casa Savoia (Santin e Riccomini).
Sull'isola di Ventotene, il frangiflutti che protegge il porto nuovo è coperto di murales, tra i quali due rappresentano Gaetano Bresci, uno con la frase "Io mi appello soltanto alla prossima rivoluzione" pronunciata dall'anarchico durante il processo, e l'altro è rivolto verso la vicina isola di Santo Stefano.

 

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Libri su Gaetano Bresci:

Canzoni e teatro su Gaetano Bresci:


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